mercoledì 31 ottobre 2012

Un dolce scherzetto



Titolo: Un dolce scherzetto
Parring: Diego/Caparezza
Genere: real person slash
Warning: NC 17
Disclaimer: è tutto frutto di fantasia, come sempre e niente è fatto a scopo di lucro
Questa fiction è ispirata a Dolcetto o scherzetto? Parring Jan/Miguel





******


Michele era annoiato da Halloween. In generale da tutte le festività convenzionali e non da meno questa, tipicamente anglosassone ma che nell’ultimo decennio aveva trovato terreno fertile anche in Italia. E si sa, il bel paese è sempre pronto ad accogliere una festa nel sacro nome del consumismo Non aveva niente da fare Caparezza e i suoi amici erano in giro per vari week-end, la sua fidanzata impegnata.
Distrattamente sedé sul divano. Che avrebbero dato quella sera in tv? Horror, nient’altro che Horror! Tanto valeva accontentarsi.
Col telecomando stretto tra le dita fece uno zapping furioso fino a cadere su un vecchio film di Hitchcock. Rischiò di addormentarsi, motivo per cui dopo cinque minuti cambiò canale. A rai movie davano una sorta di antenato di Hostel. Guardò annoiato quello pseudo splatter che, se non altro, lo tenevano sveglio. Il film narrava di una famiglia rapita da un oste pazzoide. Era completamente rilassato quando un crepitio proveniente dalla porta-finestra lo riscosse.
“Che cosa è stato?” biascicò a voce alta. Pensò al suo cane, oppure ai ragazzini per strada che cercavano i dolcetti. Nonostante la razionalità, non poté evitare di impressionarsi. Quatto quatto si alzò per controllare. “Se c’è qualcuno avviso, vi scateno il cane contro!” Urlò contro l’entità che si muoveva dietro la tenda. Oltre la porta a vetri c’era qualcuno, ne fu sicuro. Michele restò senza fiato nel costatare che non si trattava di una persona ma di un grosso uccello, probabilmente gigantesco, che si era appollaiato sul porticato. Ma che razza di volatile era? Un mostro o cosa?
“Se è uno scherzo non fa ridere!” In effetti non c’era proprio un bel niente da ridere. Prese coraggio e spalancò la finestra. Un vento maligno lo colpì facendolo rabbrividire. Non ricordava facesse tanto freddo. La sagoma di quella strana creatura apparve minacciosa.
“Dolcetto o scherzetto?”
“Diego! Ma che cazzo...?!” le domande gli morirono in gola. Diego Perrone era di fronte a lui e indossava un costume da vampiro. Quelle che a Michele erano sembrate ali in realtà erano i cordoli del mantello.
“Ma non dovevi arrivare domani?” Michele era costernato. Non lo attendeva prima dell’uno novembre, inizio delle riprese de La fine di Gaia.
“Sennò che scherzo è?” Diego era piegato in due dal ridere. La faccia di Michele spaventato era troppo buffa.
“Non ci posso credere, a quest’ora di notte! Come sei venuto?”
“In volo!” Mosse le finte ali da vampiro saltellando sul posto. “Ti piace il mio costume da Dracula?”
Michele sorrise finalmente rilassato. Non si sarebbe mai aspettato una sorpresa così.
“Entra, che se stiamo qui ci prende come minimo il raffreddore”
Entrarono in casa. Michele osservò divertito il trucco di Diego. Era davvero prefetto come vampiro: guance bianche, rossetto cremisi, eye-liner nero sotto gli occhi. E il vestito faceva il resto. Sexy, anche meglio del solito, gli si seccò la gola. Succedeva tutte le volte che si eccitava. E quando stava con Diego gli succedeva spesso.
Questi gli si parò di fronte. Un attimo dopo lo abbracciò.
“Insomma non sei contento di vedermi?” sussurrò mentre lo teneva stretto forte a sé abbarbicandosi al fisico, immenso in confronto al suo.
“Non avrei mai pensato arrivassi con un giorno d’anticipo per passare Halloween con me... che poi non gli ho mai dato importanza e anche tu mi sembrava fossi allergico a questo tipo di stronzate, o sbaglio?”
“Non sbagli ma vuoi mettere la tua faccia spaventata? Sono settimane che ci penso...” sorrise con dolcezza.
“Che dispettoso” Michele gli staccò una ciocca di capelli che ricadeva davanti all’occhio per aggiustarla dietro l’orecchio mentre i nasi si accarezzarono. Occhi negli occhi.
“Che bello che ci sei” Michele lo disse fissandolo con quell’intensità che faceva piegare le ginocchia a Diego. “Pensavo che a Torino avessi di meglio da fare”
“Meglio di stare con te?” Diego gli sfiorò l’ammasso di capelli ricci, tirati indietro da una fascetta rossa. Michele si sciolse ulteriormente. Un po’ come il rossetto del finto vampiro che, ben presto, fu trasferito sulle sue labbra e attorno alla bocca. Baciandosi, trotterellarono fino al letto. Una volta riversi Michele studiò Diego.
“Vampiretto, sei complicato da scartare” gli scappò la famosa voce nasale di Caparezza.
“Non so nemmeno io come ho fatto a mettermi ‘sta roba, specie questa specie di mantello o ali da pipistrello!”
“Povero cucciolo. Ti aiuto io a spogliarti”
Diego fece uno sguardo tra il malizioso e l’angelico, poi sussurrò: “Nada, non esiste”
“Perché?” Michele assunse un’aria preoccupata.
“Dopo che sono stato costretto a cambiarmi in aeroporto e a trovare la faccia di girare così e poi trovare un taxi, lasciami almeno sentirmi vampiro mentre faccio l’amore...”
“Uh uh... Diegone è sempre tutto una stupore... oltre che un bollore...”
Diego annuì mentre lo aiutava a liberarsi dei pantaloni.
“Fai piano” si raccomandò il pugliese quando la mano intruppò le sue parti basse.
“Cos’è, Halloween ti rende delicato?”
“Delicato? Sono così eccitato che non so se ce la faccio... passa sempre troppo tempo dall’ultima volta” sospirò. Diego gli rubò un bacio sulla guancia barbuta mentre il desiderio lo travolgeva. E non fece quello che agognava per non affrettare troppo. Ma avevano tutta una notte davanti a loro.
“Togliti almeno i calzoni Dracula!”
“Fammi capire come” gli rispose mentre cincischiava con la strana abbottonatura dei suoi pantaloni.
“Lascia fare a me. Conoscendoti come minimo rompi tutto”
“Dici che sarebbe una cattivissima idea?” Il torinese dilatò le pupille.
Un lampo di lussuria attraversò lo sguardo di Michele che, un attimo più tardi, optò per quella soluzione. La cerniera fuggì per aria e un brandello del pantalone scucito da qualche parte sul pavimento.
“Deciso il ragazzo... !”
“E ora sei tutto mio” Michele affondò la bocca sul collo sdraiandosi su di lui.
I baci si fecero sempre più intensi, mentre i corpi cercavano l’unione in quegli attimi di concitato desiderio di essere una cosa sola.
“A questo punto il vampiro perde la sua supremazia e viene sopraffatto... ”
“Il vampiro non ha nulla in contrario... ”. Si fusero e per una dozzina di minuti si amarono completamente dimentichi del vento fuori, o di qualsiasi mondo oltre quella stanza.


Michele si gettò a peso morto accanto all’amante. Fiato grosso e goccioline imperlavano la sua fronte.
“E secondo te Michele” arrancò Diego sudante e ansimante a sua volta: “È stato più dolcetto o scherzetto?
“Diciamo un dolce scherzetto, degno di te!”
Sogghignando Diego si spostò tra le sue braccia e Michele lo accolse. “Il tuo vestito di scena è ridotto in brandelli...” toccò un lembo di camicia dove si era staccato un bottone, partito durante l’assalto.
“E questo significa che non avrò un cazzo da dare al negozio che me lo ha affittato! E mi toccherà pagare la mora!”
Michele sorrise: “Lo sa che l’amo proprio signor Perrone?”
“Anch’io signor Salvemini” e sempre abbracciati tornarono a sbaciucchiarsi.

domenica 28 ottobre 2012

Diventare grandi Settimo capitolo





Titolo: Diventare grandi

Pairing: Diego - Michele

Rating: NC 17

I personaggi mi appartengono. Ho preso solo in prestito i nomi. Questa fic non è scritta a scopo di lucro ma solo per divertimento



*****


venerdì 26 ottobre 2012

RICOMINCIARE AD AMARE




Titolo: Ricominciare ad amare
Genere: AU
Autore: Annina
Parring: Diego/Caparezza
NC 17 per scene di sesso e violenza
Disclaimer: è tutto frutto di fantasia, come sempre e niente è fatto a scopo di lucro



Diego aveva davvero fatto breccia nel cuore di tante ragazze. Ma lui nel cuore aveva solo Michele.


Quella mattina la luce che filtrava dalle imposte era grigia. L’autunno era arrivato, con i suoi meravigliosi colori, ma anche con il freddo che nella piccola cittadina del nord cominciava a farsi sentire.
Diego aprì i battenti: eccola, anche la nebbia era puntuale. Saliva con lente volute a coprire le case e la piazza.  Dalla sua mansarda, il campanile del duomo che stava battendo le otto era invisibile.
Mentre beveva la sua tazza di caffè, si affacciò al piccolo balcone e attese, come tutte le mattine, che il ragazzo che abitava due piani sotto uscisse. Era diventata un’abitudine alla quale non poteva più rinunciare.
Qualche volta fingeva di uscire nello stesso momento, solo per incontrarlo e salutarlo, magari sfiorarlo scendendo le scale a precipizio, come suo solito.
Si era innamorato di lui senza nemmeno sapere chi fosse. Sapeva solo che era bello, bellissimo, col pizzetto e con quella testa di capelli lunghi e ricci, neri come la pece. Anche gli occhi erano neri, Diego ci si perdeva ogni volta che lo incrociava. Neri e profondi come il cielo di mezzanotte. Era romantico, Diego, a volte anche troppo, ma era fatto così, non poteva farci niente.
Quante volte aveva sognato a occhi aperti che lui lo fermasse sulle scale, e gli proponesse un giro sulla sua moto. Nera anche quella naturalmente, che moto poteva avere se non una Diavel uno come lui, che in effetti aveva un che di luciferino, nello sguardo e nelle movenze.
Sognava, Diego: sognava di salire dietro di lui, di aggrapparsi, stringerlo forte. Sarebbero andati al mare, a passeggiare abbracciati sulla spiaggia, un bacio nel sole del tramonto… 
“Dormire, morire, forse sognare…  cosa c’entra ora l’Amleto” pensò Diego cercando con gli occhi il suo  vicino, che quel giorno era in ritardo.
Ormai congelato Diego rientrò in casa, si infilò felpa e giubbino e decise di uscire e di aspettare sotto casa, a costo di arrivare tardi al lavoro.  Scese le scale, e mentre stava per passare davanti alla porta, questa si aprì e Michele, così si chiamava, uscì.
Diego si fermò incantato, la bocca asciutta: era bellissimo, fasciato in una tuta di pelle nera e stivali da motociclista. Sussurrò un “ciao” soffocato. Michele si girò sovrastandolo dall’alto del suo metro e novanta, lo guardò intensamente facendogli un cenno di saluto, e senza dire niente se ne andò.
Diego si appoggiò al muro cercando di riprendersi. “Come mi ha guardato” pensò “di solito non mi degna del suo saluto, oggi mi ha proprio guardato, ha guardato me”.
Poi si accorse che erano già passate le nove, e si ricordò che quella mattina toccava a lui aprire la libreria che aveva in società con due amiche. Corse via: per fortuna il negozio era a pochi metri da casa sua.
Non arrivò in tempo, comunque, le sue colleghe lo avevano preceduto.
“Cucciolo, cosa ti è successo? Il bel vicino ti ha invitato a colazione?” lo presero in giro. Poi Caterina lo guardò meglio “Diego, che faccia hai…”.
Diego non rispose nemmeno, gli occhi sognanti, ancora aggrappato al ricordo di quanto era successo poco prima.
“Bene Cucciolo, adesso ordiniamo la solita colazione, poiché sono già le nove e mezzo, poi ci racconti cos’è che ti fa brillare così gli occhioni, stamattina;  solita brioche alla crema?” chiese Agnese.
“Anche una cioccolata calda per me” disse Diego “con la panna e la cannella e il cioccolato in polvere sopra…”
“Dovrai rivelare il tuo segreto un giorno: come diavolo fai a mangiare tanto e a rimanere così magro?” chiese Caterina, una ragazza molto carina, anche se un tantino cicciottella; Diego sorrise “è un dono di natura” disse. Di altezza media, Diego aveva un fisico minuto, ma tornito.
“Sai che siamo tutte innamorate di te Diegone, se poi ci sorridi così…” fece Agnese guardandolo. Sempre allegro e disponibile con tutti, forse non si poteva definire bello secondo i canoni, ma con i grandi occhi nocciola, il suo sorriso tenero e il ciuffo ribelle, Diego aveva davvero fatto breccia nel cuore di tante ragazze. Ma lui nel cuore aveva solo Michele.
“Allora, addirittura cioccolata per tre! Cosa festeggiamo?” chiese entrando Anita, la ragazza del bar.
“Non lo sappiamo ancora, Diego non si sbottona! Ma guardalo negli occhi e dimmi cosa ci vedi” fece Caterina.
Anita si sedette con loro nel piccolo salottino d’angolo, dove i clienti potevano sfogliare i libri tranquillamente  prima di acquistarli, assaggiando la torta fatta in casa e bevendo tè.
“Forza che ho poco tempo: sei riuscito a farti invitare a cena da Michele!” disse Anita.
“Magari. Stamattina l’ho incontrato sulle scale, mi ha guardato in un modo così … non so, non mi aveva mai guardato prima così, anzi di solito quasi non mi guarda. Ragazze, a 25 anni mi sento come un adolescente alla prima cotta!”
“Dai Diego, invitalo tu a cena a casa tua no? Bisogna pure che qualcuno prenda l’iniziativa” fece Caterina.
“No, non ci riesco, mi intimidisce, ma l’avete visto no? Così serio, sulle sue, come faccio?”
“A dirti la verità, a me fa anche un po’ paura, sempre così accigliato, e sempre vestito di nero poi” disse Agnese.
“Dai, Agnese, addirittura paura! Anch’io vesto spesso di nero” Diego guardò l’amica risentito.
“Ma tu sei il nostro cucciolone, non si può aver paura di uno come te, si può solo riempirti di coccole!” le ragazze ridendo baciarono Diego, quindi finite le cioccolate, tornarono tutti al lavoro.
*****
La moto filava veloce, sfidando la strada a curve che portava in alta collina.
Michele quel giorno non aveva aperto il suo negozio, non aveva  voglia di rinchiudersi  fino a sera fra quattro mura. Doveva stare un po’ all’aria aperta, senza nessuno intorno; stava diventando insofferente, non sopportava più nessuno, a volte non sopportava più di vivere.
Parcheggiò la moto e si incamminò sulla stradina che portava alla diga. L’aria era fredda ma pulita, lassù la nebbia non arrivava mai. Si sedette sul parapetto e guardò l’acqua verdissima giù in fondo. Doveva essere ghiacciata. Chissà come sarebbe stato tuffarsi nel laghetto artificiale.
“Piantala Michele di fare il patetico, tanto non hai nemmeno il coraggio di buttarti di sotto” pensò.
Guardò un falco che disegnava ampi cerchi nel cielo. Suo malgrado rabbrividì. Da qualche parte c’era una vittima, che sarebbe finita nei suoi artigli.
Il passato tornava prepotente nei suoi pensieri, quei fantasmi di cui non riusciva a liberarsi condizionavano ancora la sua vita. Erano passati otto anni da allora, Michele ne aveva trenta adesso, eppure il ricordo di quello che era successo era sempre presente.
Ripensò al suo paese del sud, al mare, al sole. Era stato felice laggiù, fino all’adolescenza. Poi  l’intuizione di sentirsi diverso dagli altri, di essere diverso. Si accorgeva che i suoi amici si stavano allontanando da lui, qualcuno cominciava già a prenderlo in giro.
Si sfogava con Melinda, la sua cara amica, che gli rispondeva “Michele, certo che sei diverso, sei sempre stato diverso dagli altri, perché sei buono, sei una persona speciale, hai un cuore grande così. Ognuno nasce come nasce, le tue scelte sessuali non possono essere messe in discussione da nessuno. Non farti mettere sotto, non lasciarti condizionare”.
Michele rideva “Già, come la canzone di Caparezza! Sono disposto a stare sotto…”
“Solamente quando fotto!” rispondeva Melinda, fan come lui del famoso cantautore.
Sembrava facile. Non lo era.
Una sera Michele fu invitato a uscire da un ragazzo, un ragazzino biondo; dopo un gelato, gli propose un giro sulla spiaggia. Michele era contento, non era solo allora, c’era una speranza anche per lui.
Quel ragazzo lo portò dritto alla fine della sua vita. Sulla spiaggia lo stavano aspettando: in cinque lo circondarono, iniziarono a sfotterlo, gli giravano intorno come una giostra crudele. Lo assalirono, lo picchiarono a sangue, mentre il ragazzino che l’aveva attirato nell’agguato rideva e gli urlava “Volevi scoparmi brutto frocio! Fai schifo, te ne devi andare da qui!”.
Lo abbandonarono svenuto sulla spiaggia, sotto una barca. Lo trovarono il mattino dopo due pescatori, che diedero l’allarme. Michele rimase ricoverato due mesi, con varie fratture e un trauma cranico, ma le ferite più profonde le avevano inferte alla sua anima. Anche i suoi genitori, quando lui si aprì con loro, svelando i motivi per cui era stato picchiato, non accettarono la situazione, e anche se la mamma continuò ad andare da lui, perché comunque era suo figlio, il padre non si fece più vedere.
Solo Melinda gli stette vicino con tutto il bene che gli voleva, ma una volta dimesso, Michele fece le valige, e se ne andò abbandonando anche lei. Non poteva rimanere in quel paese, doveva cercare un posto dove poter stare da solo, dove cercare di recuperare una vita. Melinda voleva partire con lui, ma Michele glielo impedì. “Ti voglio bene Melinda, ma mi ricorderesti sempre quello che è accaduto; ci sentiremo, ci vedremo, abbiamo sempre l’amicizia su facebook no?” tentò di scherzare, ma Melinda aveva capito che il suo amico non sarebbe mai più stato lo stesso. Con la morte nel cuore, lo accompagnò alla stazione, e piangendo lo salutò.
*****
Michele si riscosse. Si era alzata un’aria gelata, e sentiva anche un po’ di fame. Senza che lui se ne rendesse conto, erano già le due.
Si avvio verso l’unica trattoria del piccolo paese tra le colline e ordinò un paio di panini. Era stanco di mangiare da solo, di vivere da solo, avrebbe avuto bisogno di qualcuno con cui condividere almeno un po’ di tempo, se non la vita.
Mentre mangiava, gli tornò alla mente il ragazzo dell’abbaino. Era un bel ragazzo, sembrava molto gentile, e aveva notato che era interessato a lui. Beh, come non notarlo, quando lo vedeva arrossiva, impallidiva, e non riusciva ad articolare altro che un timido “ciao”. Vero anche che lui non aveva certo fatto niente per incoraggiarlo. Gli sarebbe piaciuto riuscire a scambiare qualche parola, ma non era mai riuscito ad abbassare la guardia, il dolore dentro di lui era sempre forte, la paura di essere ancora ferito, aggredito non lo abbandonava.
Uscì, fece ancora una passeggiata, quindi raggiunse la moto e riprese la strada del ritorno.
A casa, mentre cercava le chiavi, il portoncino si aprì con violenza e Diego uscì di corsa; non poté evitare di sbattergli contro, e rimase lì imbambolato a fissarlo. “Beh” fece Michele “non riesci proprio a camminare tranquillo tu?”.
Diego smise di respirare, tentò di rispondere, ma riuscì solo a tossire. Michele fece un ghigno.
Riprendendo fiato, Diego spiegò “sto correndo dal droghiere, ho finito il curry e…”. Michele lo guardò e disse “immagino sia una questione di vita o di morte no?”.
“Sto facendo il pollo… vuoi… vorresti… cioè, se ti va no?”
Michele lo guardò interrogativo.
“Se vuoi venire su da me a cena, preparo anche per te” poi rimase lì, spaventato dalla sua improvvisa intraprendenza.
Michele  era combattuto, voleva andare e allo stesso tempo non voleva aver niente a che fare con quel ragazzo. “Si, va bene, alle otto salgo” si sentì rispondere suo malgrado.
Diego corse come se avesse le ali ai piedi, tornò e si mise ai fornelli, mentre telefonava a Caterina, e gli spiegava cos’era appena successo. Caterina era al settimo cielo “Diegone, sono così felice per te, avverto io le altre. Chiamami appena puoi, fammi sapere cucciolo”.
Fece una doccia e si cambiò, appena in tempo: Michele era alla porta.
Diego lo accompagnò nella vasta sala, dove c’era anche la cucina. Aveva apparecchiato meglio che poteva e aveva anche acceso le candele. Le accendeva sempre anche quando era da solo. Aveva fatto male? Chissà cosa avrebbe pensato Michele, che le aveva messe apposta, che voleva fare una cena romantica… signore, come è difficile!
Michele si sedette a tavola senza dire una parola. Aveva portato una bottiglia di vino che Diego aprì. Era vino fermo, forte, quasi denso.
La cena andò bene, la pasta alle verdure era squisita e il pollo al curry perfetto. Diego era bravo in cucina.
Complice il mezzo bicchiere di vino rosso al quale non era abituato, Diego parlava a ruota libera, non sentiva più la timidezza, era così felice di avere lì Michele, non gli sembrava ancora vero.
Michele invece era taciturno. A un certo punto Diego disse “Mi spiace, non ho niente di dolce, non sapevo che saresti venuto e quindi…” si interruppe perché squillò il telefono. Era Agnese, voleva sapere come andava. Diego rispose sottovoce “non ora, non posso ancora dirti niente”.
Michele lo sentì; forse a causa della stanchezza, il vino gli aveva dato particolarmente alla testa, e piano piano uscirono i suoi vecchi demoni.
“Ma cosa ci faccio qui, cosa vuole da me questo, sta succedendo ancora, sta succedendo ancora, me ne devo andare” si alzò e andò verso la porta. Diego lo guardò stupito, si avvicinò, gli toccò una spalla chiamandolo “Michele, ma stai già andando via?”.
Quel tocco scatenò l’ira di Michele. Si voltò verso Diego e sibilò “cosa vuoi ragazzino? Cosa vuoi da me? Vuoi farti una scopata? Va bene, posso accontentarti…” lo spinse contro il muro e lo baciò rudemente, con violenza.
Diego rimase allibito. Voleva sciogliersi da quell’abbraccio, non voleva, non così.  Michele non lo abbandonava, gli tolse la maglia strappandola, continuando a baciarlo, a morderlo. Diego sentì il sapore del sangue, non era quello che aveva sognato. Perché Michele, perché?
Michele lo prese e senza fatica lo gettò  sul divano, standogli addosso, sentì l'eccitazione sopraffarlo. Voleva prenderlo, voleva fargli male, voleva sentirlo urlare…
Diego non aveva la forza di sottrarsi, nemmeno di gridare. All’improvviso gli occhi di Michele incrociarono i suoi: dilatati, pieni di sofferenza, di lacrime. Si fermò continuando a guardarlo, ma cosa stava facendo? Lentamente lo lasciò andare, si alzò dal divano, e se ne andò senza dire più una parola.
Diego si rannicchiò sul divano e pianse a lungo, finché sopraffatto dalla stanchezza si addormentò.
La mattina seguente la doccia non riuscì a lavare via la sua pena. Non si affacciò al terrazzino e uscì piano per andare alla libreria.
Le amiche erano già lì, ma bastò loro guardare lo sguardo smarrito e pesto di Diego per azzittirsi. Non fecero domande, ma gli restarono vicino con affetto, dicendogli: “quando vuoi parlarne, noi siamo qui per te”. Pallido e tirato, Diego le baciò, e facendo un sorriso mesto si mise a vuotare gli scatoloni dei nuovi arrivi. Rispettando il suo bisogno di stare solo, Agnese e Caterina si allontanarono, addolorate perché non avevano mai visto il loro Diegone così a terra.
La giornata fu lunga e difficile. La pioggia cadeva e i clienti che entravano erano tutti infreddoliti e intrattabili.
Verso le cinque, si concessero una pausa, davanti a un tè. Diego non aveva mangiato niente in tutto il giorno, e questo preoccupava le ragazze: lui mangiava sempre tanto. Cosa gli avevano fatto?
In quel momento la porta del negozio si aprì e Michele entrò, guardandoli  con aria smarrita. Non era certo la prima volta che entrava in libreria, ma era la prima volta che si sentiva guardare con odio dalle due ragazze.  Diego tenne gli occhi bassi e non fiatò.
“Posso parlarti Diego? Per favore” disse Michele.
Agnese e Caterina alzandosi risposero nello stesso momento “no, non puoi parlargli, te ne devi andare”.
Michele continuò a guardare Diego, che finalmente alzò gli occhi a guardare i suoi: vi lesse incertezza, paura, anche tenerezza. “Va bene, usciamo un attimo” rispose.
Uscirono nella galleria, e Michele dopo un inizio incerto, spiegò a Diego quello che gli era successo nel passato, quello che aveva provato la sera prima, gli chiese di scusarlo, di perdonarlo se poteva. E gli chiese se voleva provare a ricominciare tutto dall’inizio.
“Ho passato la notte e il giorno a pensare a quello che ti avevo fatto, alla tua tenerezza e alla mia rabbia, a come ti avevo aggredito, ferito, mi sono sentito un mostro. Sono stato un mostro. Diego, vuoi venire a cena da me stasera?”
Diego sorrise, uno di quei suoi sorrisi che potevano sciogliere anche il granito.  Disse di si.
Michele lo prese per mano, entrarono così in negozio, ad avvisare le ragazze che per  Diego era ora di andare. Agnese e Caterina sorrisero.
A casa di Michele non c’era una gran scorta di provviste, ma Diego riuscì a preparare una cena di tutto rispetto. Michele accese due misere candeline, e rise “accidenti, non sono certo paragonabili alle tue”.
Il biondino rise a sua volta “vorrà dire che domani andremo a fare compere”. Michele lo guardò, sentì qualcosa sciogliersi dentro di sé, attirò Diego in un abbraccio. Lui alzò gli occhi a guardarlo, e in quegli occhi Michele vide tutto l’amore del mondo.
Lo baciò con dolcezza questa volta, con tutta la tenerezza che provava per lui. Diego gli rispose con passione, aggrappandosi al suo collo, accarezzandogli i capelli.
Si avviarono verso la camera da letto, e si spogliarono piano a vicenda, guardandosi incantati, toccandosi, accarezzandosi, i sensi accesi. “Farò piano, te lo giuro” disse Michele. Diego lo attirò a sé, e Michele entrò in lui lentamente, attento a non fare del male a quel suo compagno che aveva finalmente capito di amare. Se Diego sentì male, non lo disse al suo amore, che si accorse comunque delle sue lacrime, e baciandolo gliele asciugò una ad una. Fecero l’amore a lungo mentre fuori la pioggia batteva sui vetri; la notte li ritrovò abbracciati stretti, indivisibili. Non pioveva più, la luce della luna entrava dalla finestra.
“Ti amo Michele, ti amo da morire, sono così felice…” mormorò Diego guardando il compagno.
Michele si perse negli occhi di Diego, quegli occhi che gli avevano fatto capire che ci sono anche persone stupende, che si poteva anche ricominciare a vivere, ricominciare ad amare.
“Ti amo anch’io, Diego, ti amo anch’io” sospirò Michele e riprese a baciarlo. La notte era ancora lunga, ed era tutta per loro.

mercoledì 24 ottobre 2012

Roma amore mio




Titolo: Roma amore mio
Parring: Diego/Michele (Caparezza)
Genere: Commedia e romantico
Storyline: Antecedente alle collaborazioni
N.C. 13
Disclaimer: è tutto frutto di fantasia, come sempre e niente è fatto a scopo di lucro


*******



Camminavano uno a fianco all’altro per via del Seminario. La serata era fresca, l’aria frizzantina, proprio come ti aspetteresti a Roma, quando l’estate è alle porte e le ragazze iniziano a mettere i top scollati ed esibiscono le spalle. Ma non era ancora tempo di pantaloni alla pinocchietto questo è certo, non per Diego che li esibiva sotto una t-shirt bianca con un disegno di un coniglio dal collo sanguinante. Un po’ truculenta come immagine ma ben si adattava al look aggressivo, completamente contrastante con l’aria da angioletto. Accanto a lui Michele, un groviglio di emozioni in un uomo di ventisei anni con un passato alle spalle già pesante, con la voglia di diventare “altro”, di staccarsi dagli sbagli di quel passato che rinnegava, che rifiutava, che aveva cercato di rinchiudere in una scatola e gettare nell’oceano, proprio come il cuore d’oceano del Titanic.
Erano vicini quella sera perché si erano dati appuntamento. Le due precedenti volte, Diego con il suo gruppo I Medusa e Michele da solo, avevano appena fatto in tempo a conoscersi fisicamente e poi apprezzarsi artisticamente. Ma sembrava che le due cose dovessero in qualche modo andare di pari passo. Caparezza apprezzava I Medusa e Diego Perrone e viceversa. Diego pensava (e diceva) che Caparezza sarebbe diventato un grande, avrebbe fatto il botto. Ormai lo affermava da mesi, parlandone in continuazione, tanto che i componenti del suo gruppo, dopo l’ennesima volta nella quale aveva iniziato a parlare di lui pretendendo di sentire il demo del suo CD in macchina, avevano protestato e uno di loro aveva commentato: “E sposatelo se ti piace tanto!” Diego era fatto così, quando si puntava su qualcosa non si staccava più, e per lui quel CD che il collega gli aveva donato in anteprima durante il loro secondo incontro a Roma, era diventato come la coperta di Linus. Se lo portava ovunque, persino al bagno! Per questo quando si erano dati appuntamento a Roma per discutere del disco che stavano mettendo su insieme, aveva iniziato ad agitarsi molti giorni prima. La fidanzata di Diego, era stranita, non aveva mai visto così il suo ragazzo, gli sembrava troppo preso. Lui che non amava per niente lasciare la sua Torino, se non per il mare che amava tanto, in pochi mesi era già alla terza partenza per Roma. Che aveva di tanto speciale la città eterna ora per lui? Stava germinando il lei il sospetto che l’amato nascondesse un intrigo amoroso, altro che infatuazione artistica! Come la chiamava lui. Ma Diego era partito e ora si trovava in quella via di Roma a pochi passi dal Pantheon. E non parlavano più da pochi secondi. Michele provava a riempire quei silenzi con un quintale di chiacchiere, detestandosi poi perché mai e poi mai avrebbe voluto sembrare a Diego un chiacchierone, un logorroico che parla parla senza dire in realtà un granché. Sì, uno di quegli sciocchi ragazzi del sud che non fa altro che pontificare su questo e su quello. Quando era con Diego, ecco questo lo turbava, non riusciva a sentirsi completamente a suo agio. Tipo sottoesame. Forse perché aveva capito quanto il cantante dei Medusa lo stimasse, o semplicemente perché ci teneva a non apparire uno sciocco. Invece Diego non sembrava infastidito da quei rari silenzi tra un discorso e l’altro, distraendosi con i passanti, con un chiesa, un gruppo di turisti, la luna quasi piena, una bella ragazza.


“Eccolo, è questo il posto” Michele indicò la trattoria che stavano cercando ormai da parecchi metri, un posticino caratteristico dove i tavoli all’aperto erano stati piazzati prima del tempo. Ma sembrava un sacrilegio richiudersi in una serata così tra quattro mura, e il turista torinese e il barese furono d’accordo sul  mangiare fuori tenendosi però i giacchetti. Ma quando iniziò a spirare il famoso ponentino, che proveniva dal mare, Diego starnutì sui resti del suo fiore di zucca (aveva tolto l’alice) e Michele lo guardò con affettuoso rimprovero. “Hai solo pantaloni a mezza gamba?”
“Sembri mia madre” gli rispose sogghignando Diego. Uno sguardo intenso, dritto negli occhi, come stava capitando di frequente quella sera. Ad abbassarlo per primo era sempre il ragazzo del nord, che si lasciava sopraffare. E lo stomaco faceva una piroetta. A parte quell’imbarazzo, stava bene, non ricordava di essere stato così bene con qualcuno da sempre. In Michele stava trovando un amico, qualcuno di speciale, non se lo sarebbe aspettato. Finalmente iniziarono a parlare della canzone che avevano composto insieme durante quei mesi. Sempre via telefono. Era la scappatoia per evitare silenzi pesanti per Michele e sguardi troppo penetranti per Diego. Sorprendentemente si trovarono d’accordo su tutto. Diego diceva: ok, perfetto. Michele: sì, ci avevo pensato anch’io. Erano esterrefatti, succedeva così raramente a due autori. Michele convenne che quell’alchimia che li faceva trovare così, avrebbe potuto sfruttarsi meglio. Pensò ad un futuro dove c’era Diego a fare qualcosa con lui, a far parte di qualcosa del quale lui era già parte. Non seppe esprimerlo a parole. A rompere quel circolare di pensieri che si annidavano sotto la folta chioma riccia, ci pensò il cameriere che arrivò con il conto. Litigarono su chi dovesse pagare per quasi dieci minuti e, alla fine, esasperato da tanto zelo, Michele lasciò pagare Diego ma con la promessa che quanto prima sarebbe venuto a trovarlo a Molfetta e avrebbe accettato di essere suo ospite in tutto. Dalla stanza, all’eventuale ristorante, colazione, qualsiasi cosa.


Camminarono ancora qualche metro fino a giungere a Campo de Fiori. Sembrava che Caparezza avesse già intenzione di arrivare sotto la statua di Giordano Bruno, il famoso filosofo, da prima. Era come se quel percorso fosse stato nella sua mente. Una volta là, partì per la tangente a parlare dell’eretismo, degli eretici ma di quello in particolare. Gli occhi brillavano e sembrava uno di quei professori alternativi che ogni alunno spera di trovare sempre, magari anche solo come supplente. Probabilmente anche Diego, il quale affascinato, lo ascoltava in silenzio quasi mistico. Una tale partecipazione emotiva che però fece a Michele l’impressione contraria.
“Cazzo, sono tre ore che parlo, ti sto rompendo vero?” si scusò grattandosi la testa.
“Ma tutto il contrario! Starei ore ad ascoltarti parlare Michi... sei così... preparato... ” fece un sorrisetto storto, una smorfietta che il cervello di Michele si affrettò a classificare <<adorabile>>.
“Beh... dai... sì, sono abbastanza preparato... però non vorrei che pensassi... ” si bloccò. La lingua era andata oltre la pubblica decenza.
E Diego indovinò il resto: “Tipo che stai cercando di stupirmi? Come se io fossi una ragazza da impressionare così poi te la do?”
Michele divenne rosso e di conseguenza arrossì anche Diego, ma la birra in circolo li aiutò a rilassarsi e così il talento di Molfetta, proseguì la pantomima: “Ok mi hai beccato Diego, in effetti ho accettato di partecipare al Il mio gatto solo per... perché mi ti voglio fare! Scusa se ho finto di apprezzare la musica dei Medusa o di apprezzare te come cantante!”
“Sì, ok ma io che ci guadagno? A parte che stanotte scopiamo” fece l’occhiolino e un sorrisetto sbilenco che mandò completamente in pappa ogni razionalità e il cervello di Caparezza, sotterrato dai quintali di sebo capelluto, fece tilt. La gente passava accanto a loro indisturbata e lui si sorprese a guardare Diego Perrone con la faccia più estasiata che aveva e un’espressione che esprimeva un solo concetto: Non hai idea di quanto mi piacerebbe...
Restarono altri secondi cruciali in silenzio a guardarsi oltre le spalle, imbarazzati, saltellando su un piede e sull’altro. Un pensiero semi coerente attraversò Michele. Era ora di ritirarsi.
“Sei stanco?” chiese Diego quando Michele gli espresse di voler tornare in albergo.
“No, ho solo voglia di iniziare a... scopare... ovviamente!” cazzeggiò sperando che l’altro cogliesse la battuta. Prima o poi anche Diego avrebbe scoperto questo lato ironico che lo contraddistingueva e il torinese gli sembrava abbastanza intelligente e fine di cervello da capire ogni battuta e, per quel poco che aveva visto, sembrava anche possedere un immenso senso dell’umorismo, molto simile al suo per di più. Diego si attaccò al suo braccio: “Allora corriamo che ne ho un sacco voglia anch’io” rispose appoggiando distrattamente la testa sulla spalla. Allacciati e per niente preoccupi di come avrebbero sostenuto quel giochino, si avviarono verso il loro hotel.

TA TA TA TAAAAAAAAAAAA


Tutto ciò che temiamo succeda.... DOMANI!!!!!!!!

-          Diego si presenta con la sua ragazza... ok... però lei è incinta..... MOLTO INCINTA
-          Diego non parla con i fans, se la tira e fa lo stronzo, in poche parole ci spezza il cuore...
-          Diego si presenta ubriaco fradicio (questa fa ridere però dai.... )
-          Diego capisce chi siamo e ci prende a male parole “Frocie sarete voi! Maiale!”
-          Diego non si presenta perché ha un’intossicazione alimentare (Di Ale)
-          Diego non si presenta con la sua ragazza però gli amici fanno auguri perché sta per partorire
-     Il  gruppo di Diego si presenta direttamente sul palco e, senza colpo ferire, sparisce (Sempre di Ale, a me starebbe benissimo!!!!!)
-         Diego risponde male ad un fan di Caparezza e dice che è stufo di essere associato a lui... (ç____ç)
-         Diego annuncia che farà solo concerti solista e che non sarà più la seconda voce di Caparezza.... (noooooooooooooooooooooooooooo
   lo ammazziamoooooooooo)

domenica 21 ottobre 2012

Dallla panchina alla vita




 
Titolo: Dallla panchina alla vita
Genere: AU
Autore: Annina
Parring: Diego/Caparezza
Story line: anni '80
NC 17 per scene di sesso
Disclaimer: è tutto frutto di fantasia, come sempre e niente è fatto a scopo di lucro





“Lo sai che non mi piace, non mi  è mai piaciuta”.
“Piantala Michele, non sei mia madre! Non devo certo chiedere a te chi posso frequentare”!
“No Diego, però siamo amici da sempre, penso di poterti dire come la penso. Elena è una stronza, ti farà fare tutto quello che vuole, e tu in questo momento non hai bisogno di una come lei”.
Diego guarda Michele, sembra volergli dire qualcosa, invece tace, sospira e fa per andarsene.
Michele lo afferra per un braccio. “Diego, ascoltami per favore”.
“No Michele. No. Anche tu stai con Angela no? Anche lei è una stronza, ma io non te l’ho mai fatto pesare”.
Michele lo guarda sopreso: “Perché?”
“Lascia perdere Micky, fammi andare via”. E si incammina per il viale del parco, con i grandi occhi socchiusi, come per non far vedere la tristezza che li riempie.
“Diego dai, non litighiamo ancora, sono mesi che non si fa che litigare, va bene, non ti dico più niente, aspettami Diego”.
Diego si volta, guarda l’amico negli occhi e sottovoce gli risponde: “No Michele, sono stanco di aspettare, io devo sempre aspettare qualcosa che non arriva mai. Sono stanco anche di te”.
E all’improvviso si gira e inizia a correre, raggiunge Elena che lo aspetta vicino al laghetto, e se ne vanno abbracciati.
Angela, che fino a quel momento era rimasta in disparte, si avvicina, abbraccia Michele, tenta di baciarlo, ma Michele si scosta e continua a guardare Diego che si allontana.
“Dai Michele, andiamo, il film sta per iniziare, non mi va di entrare in ritardo. Diego è libero di fare le sue scelte, è grande ormai” lo prende per mano e lo trascina verso la fermata dell’autobus.
“No, tu non puoi capire, Diego ha bisogno di me, non è forte come sembra; fa il buffone, fa il grande, ma …” Angela lo interrompe: “Anch’io ho bisogno di te, lo capisci? A me ci pensi qualche volta? Dì, mi ami tu? Tra noi c’è sempre Diego, Diego, Diego. Se non vuoi perdermi, comincia a pensare un po’ anche a me Michele”.
Michele la guarda, le sorride, e pensa che si, in fondo ha diritto a pensare anche un po’ a sé stesso e alla sua ragazza. Al diavolo Diego, faccia un po’ quello che vuole, lui ci ha provato ad avvertirlo.
Il film fa schifo, lui lo sapeva, ne avevano anche parlato con Diego… ecco che torna il pensiero di lui, che chissà cosa sta facendo con quella stupida di Elena, e del cattivo ascendente che sicuramente avrà su Diego. Diego che è uno che vuole sperimentare sempre e comunque, che già negli ultimi tempi sta fumando troppo, e sicuramente ha già provato anche roba più forte. Non doveva lasciarlo andare.
La serata finisce a casa di Angela, i suoi non ci sono. Stasera però fare l’amore con lei non ha nessun sapore, Michele vorrebbe essere lontano da lì, in qualunque posto, ma non con lei.
“Cosa diavolo mi sta succedendo, non ci capisco più niente” pensa Michele tornando lentamente verso casa. Sente il bisogno di parlare con Diego. Arrivato al grande palazzo popolare dove abitano tutti quanti, sale le scale e suona al campanello dei Perrone. Nessuno risponde. Sempre lentamente sale altri due piani, entra a casa e se ne va a letto deluso.

Per tutto il mese successivo, Diego scompare dalla circolazione, non si fa vedere all’Università, e nessuno sembra sapere niente di lui.
Michele è un fascio di nervi, lo ha cercato dappertutto, in tutti i posti che frequentano di solito, niente, nessuna traccia dell’amico né della sua ragazza, sembra che siano scomparsi nel nulla.
Finalmente ricompare Elena, Michele la incontra nel parco. La blocca e le chiede notizie, ma lei non gli risponde nemmeno se non per mandarlo affanculo e si allontana. Michele la prende per un polso, glielo torce, e sibila: “Ora mi dici cosa è successo, dov’è Diego, voglio sapere tutto”.
“Non lo so dov’è, e non me ne frega niente. Siamo stati in giro, credevo fosse uno così divertente, invece è un gran rompipalle. Fumava da mattina  a sera, sempre e comunque fatto perso. E stava sempre a parlare di te, di quanto siete amici, di quanto gli mancavi, di quanto si sentiva a terra. Io volevo divertirmi, ma lui era sempre depresso! Alla fine me ne sono tornata a casa, l’ultima volta che l’ho visto è stato alla stazione di Bologna, io sono tornata a casa, lui non lo so che fine ha fatto, e nemmeno me ne importa, per me potrebbe anche essere morto quello stronzo”.
Michele le tira uno schiaffo così forte da mandarla lunga e distesa a terra, “se c’è una stronza, quella sei tu” e si mette a correre nel parco; “ma cosa mi prende? Non avevo mai picchiato una ragazza; non avevo mai picchiato nessuno, perdio”. Nelle orecchie una cascata d’acqua infinita, un unico pensiero martellante nella testa “Diego, Diego, Diego dove sei?”.
Corre fino a non avere più respiro, è buio ormai, si avvia verso la loro panchina, quella dove si ritrovano fin da quando sono bambini. Dov’è, dov’è quel suo amico così fragile, anche se non arretra mai davanti a niente. Anche a scuola non arretrava mai davanti a nessuno, si faceva picchiare a sangue, ma l’ultima parola era sempre la sua. Dovevano sempre intervenire loro, i suoi amici, per difenderlo. Sorride, Michele, lo ricorda piccolino, secco, uno scricciolo sempre in movimento.
Diventerò il più grande di tutti, un giorno, diceva. Non era diventato un gigante, ma era cresciuto, era diventato un bel ragazzo. Da bambino lo chiamavano tutti Ino, ora era diventato Diegone. Il più simpatico, quello che teneva su la compagnia, quello che c’era sempre per ascoltarti e poi magari tirarti su con una battuta. Ma lui, lo abbiamo mai ascoltato?
Diego, dove sei? Una morsa che serra il cuore, un’assenza, una mancanza che gli toglie il respiro. Dio come sto male, lui è il mio migliore amico. Ma è davvero solo il mio migliore amico? Qui su questa panchina stasera, non posso nascondermi la verità.
Ricordi. Quando da bambino scappava dal padre manesco, che da quando la moglie se n’era andata abbandonando lui e Diego, aveva solo lui da picchiare, quando beveva. E Ino scappava dai Salvemini, due piani sopra. Arrivava di corsa, il rumore dei piedi scalzi che battevano sul pavimento lo ricordo bene. Dormivi con me quelle sere, ci stringevamo nel mio lettino: mi abbracciavi stretto,  dicevi che ti passava la paura così.
Al mattino ci svegliavamo aggrappati l’uno all’altro e si rideva; io ti accarezzavo, ricordo che ti accarezzavo e tu mi mettevi le mani nei capelli, ti piacevano i miei ricci, dicevi. Abbiamo condiviso il letto per anni anche nell’adolescenza, sempre abbracciati, sempre ad accarezzarci. Io ti accarezzavo. Tu arrossivi , ma non ti ritraevi. Eri bello Diego. Ora sei ancora più bello. Cosa mi succede, sto farneticando, cosa vado a pensare? Ora chiamo Angela, dovevamo vederci. Vado e la chiamo.
Michele si alza, si incammina, ci ripensa. Torna a sedersi sulla panchina. E’ inutile scappare, ormai ha capito. Non vedrà più Angela.
“Voglio Diego, lo voglio qui con me, è lui che voglio. Come ho fatto a non accorgermene prima. Io sono innamorato del mio amico. Sono innamorato di Diego. Devo trovarlo, devo dirglielo, non mi importa se mi manderà al diavolo, non mi importa più di niente. Mi importa solo di Diego. ”.
Ormai sono passate altre tre settimane, ma Michele non si è perso d’animo, è certo che Diego tornerà da lui, hanno sempre condiviso tutto, nel bene e nel male. Da tre settimane vive sulla loro panchina, cercando di studiare, cercando di respirare soprattutto, l’ansia che lo prende alla gola. Ha avuto il tempo di elaborare, di capire sé stesso più a fondo, sono aumentate le sue paure, non sa come sarà la sua vita d’ora in avanti, sa che non sarà capito, forse sarà anche emarginato, ma non importa, lui è forte, non si lascerà andare.
Improvvisamente sente una presenza, la sente con tutto sé stesso, si volta: Diego è davanti a lui.
“Lo sapevo che tornavi qui” dice Michele.
“Lo sapevo che ti trovavo qui” fa eco Diego.
Michele lo guarda, lo vede ancora più  magro, pallido e sofferente,  sul bel viso gli occhi sono ancora più grandi. Gli si avvicina, lo abbraccia, lo tiene stretto a sé, mormorando il suo nome. Diego si aggrappa all’amico: “non sapevo più cosa fare, volevo tornare per te, ma ero stato così stupido l’ultima volta che ci siamo visti, non sapevo nemmeno se mi avresti parlato ancora” dice fra i singhiozzi.
“Vieni, è quasi buio, andiamo a casa mia, non c’è nessuno, potremo parlare in pace” Michele circonda le spalle dell’amico e si avviano.
Dopo una doccia, Diego è già più sollevato. Essere lì in casa con l’amico di sempre è una sicurezza per lui.
“Michele, lo sai che ai fornelli non ci sai fare, cosa stai combinando?” Michele si volta e vede Diego sorridergli, col ciuffo umido, i fianchi avvolti dalla salvietta, a pochi centimetri da lui. Il mestolo cade a terra, gli occhi si perdono in quelli teneri, grandi di Diego. Si avvicina lentamente alle labbra dell’amico, lo bacia dolcemente, timidamente. Diego non si ritrae, lo abbraccia a sua volta, lo bacia con passione.
“Diego…” Michele fa per parlare ma Diego gli mette un dito sulle labbra “sshhh, zitto Micky, ti avevo detto che ero stanco di aspettare no? Era questo che aspettavo, solo questo” e riprende a baciarlo, instancabile, insaziabile.
Il letto di Michele ora è un po’ più grande, ma a loro bastano pochi centimetri. Diego spoglia Michele lentamente, lo bacia ovunque, chiamandolo, invocandolo. “Ti amo da sempre Michele, ma non avrei mai sperato che anche tu…”
“Ti amo da sempre anch’io, Ino, ma l’ho scoperto solo in questi giorni”.
Diego grida quando Michele entra in lui, dio se fa male… dio se è bello… questo è fare l’amore… questo è l’ amore.
Alla fine si ritrovano abbracciati, le mani di Diego nei ricci di Michele, che lo accarezza, lo bacia instancabile.
“Cosa faremo Michele? Lo sappiamo che il nostro amore non verrà accettato. Siamo negli anni 80, ma la gente è ancora così arretrata”.
“Non mi importa di niente Diego, So solo che voglio amarti alla luce del sole. Andremo via se vuoi, in Svezia, al Polo, sulla Luna, non importa dove, ma nessuno potrà proibirci di vivere il nostro amore”.
Diego si accoccola tra le braccia del suo amore sospirando. Ci avrebbero pensato poi. 

sabato 20 ottobre 2012

In vino veritas








Titolo: In vino veritas
Parring: Diego/Caparezza
Story line: Eretico tour
NC 13
Disclaimer: è tutto frutto di fantasia, come sempre e niente è fatto a scopo di lucro
Questa fiction è stata ispirata Love Drunk, presente nel forum di Hawaii five 0. Un grazie speciale a Mary per il credit.



Il sentimento c’era, quello che mancava era il resto




******


giovedì 18 ottobre 2012

Il cassetto dei sorrisi, settimo capitolo ed epilogo




Capitolo 7


Pairing: Diego Perrone/Michele Salvemini
Genere: Romantico/Introspettivo  
Rating: NC 17
Disclaimer: I personaggi mi appartengono, ho solo preso in prestito dei nomi e questa opera non ha scopo di lucro. Il titolo prende spunto da Rainy Baby, di Diego Perrone



*******


Il disastro arrivò inesorabile. Ora ricordo tutto. Per un po’ di tempo l’ho rimosso. Durante un tremendo acquazzone, Diego era già al lavoro, Gabi si venne ad infilare nel mio letto. Accadde tutto rapidamente, a metà strada tra un gioco perverso e l’espiazione di un peccato, uno sfogo di qualche cosa a lungo cercata, nascosta, censurata. Un po’ fece lei un po’ feci io, non voglio dare tutta la colpa a questa strana adolescente tedesca che mi ero ficcata nella casa mia e del mio ragazzo. Fu così rapido che non so come riuscii comunque a portarla al piacere. Dopotutto da anni non scopavo con una donna. La cosa divenne una consuetudine come quella di girovagare per la città. Avevamo piacevolmente sostituito il cinema, o la mostra, o solo di girare a vuoto, con qualcosa di piacevole e più umido. Non era amore, di questo nei fui certo fin dall’inizio. Lussuria, ecco cos’era e per me era nuovo, dopotutto, come penso si sarà capito, con la mia ex Elettra non facevamo certo fuochi d’artificio. Con Diego sì e la differenza sostanziale tra lui e Gabi era la novità, e il fatto che in quei mesi di vita matrimoniale con il mio compagno, il sesso, per quanto estremamente piacevole nell’atto, aveva perso quel ‘che’ di proibito che c’era all’inizio. Ecco, con la ragazzina mi sentivo di nuovo trasgressivo. Forse era solo di trasgressione che avevo bisogno, probabilmente me n’ero panciuto troppo all’inizio della mia relazione con Diego e ora che sembrava tutto così ordinario e per niente proibito, ne sentivo di nuovo il bisogno. Ero un drogato. Devo dire che stemmo ben attenti a non farci scoprire e io non mi sentivo nemmeno tanto in colpa. Diego era felice, io ero felice e pure Gabi lo era, almeno così mi sembrava, per questo non riuscii a spiegarmi quella sua partenza improvvisa, a sei mesi dall’inizio della nostra relazione. Mi lasciò con una letterina stile infantile, che si preoccupò di infilarmi nel portafogli per paura che la trovasse Diego. Diceva più o meno che aveva trovato ospitalità a Parigi e siccome era da tempo suo sogno andarci, era stato bello ma basta, ciao. Spiegava pure di sentirsi in colpa per Diego, che pagava per noi tutti le bollette e i viveri, io però m’incazzai e quando tornò Diego gli buttai le braccia al collo disperato come se mi fosse scappata di casa davvero la figlia. Non piansi ma da quel giorno senza Gabi la mi apatia si trasformò in rancore. Ce l’avevo con tutto e tutti. Iniziavo le giornate dicendomi: che ci faccio qui? Perché non ho un lavoro? Che senso ha la mia vita? E ovviamente ben presto Diego smise di tollerare la mia rabbia che con il tempo si trasformò in freddezza. Divenni un misantropo.

Ricordo tutto nitidamente, come la maggior parte dei figli ricorda il giorno nel quale gli viene annunciata la morte del genitore o la sua malattia. Eravamo invitati per la festa di Halloween a casa di amici. Io dissi a Diego che poteva pure andare lui ma io non me la sentivo. Era molto peggio di essere apatici, era fare gli stronzi, fuor di dubbio che fosse così. E Diego s’incazzò. Riversò su di me tutto il rancore che aveva trattenuto in quei mesi. Io lo fissai incredulo rinfacciarmi tutto, compreso che non lavorassi. Mi diede del mantenuto e alla fine sbottai. Siccome mi facevo schifo io e volevo fare lui schifo, ma più schifo che mai, gli rivelai di me e Gabi. Non dimenticherò mai i suoi grandi occhi da cucciolo allargarsi e poi riempirsi di lacrime. Mi lanciò tanta di quella roba. Una lampada mi colpì in pieno petto e una scheggia di vetro mi si conficcò sullo zigomo.
“Spero che tu muoia dissanguato, fuck you” era uscito talmente di testa che per metà parlava inglese, l’altra italiano. Ad un certo punto iniziò a blaterale in olandese, che non era certo una lingua che gli avevano insegnato a scuola, ma che dopo oltre due anni, parlava benissimo. Senza tamponarmi la ferita, mi accoccolai al divano pregandolo di perdonarmi, piangendo fino a singhiozzare. Dissi che ero pentito e che non volevo perderlo, sarei morto altrimenti. Lo pensavo davvero. Le lacrime pizzicavano la ferita aperta. Un dolore che non sentivo più. Diego mi perdonò davvero infine, ma non andammo alla festa e da quella sera dormii sul divano.
Alla fine scoprii che il vago permesso studio che mi permetteva di vivere con Diego a Rotterdam, era scaduto. Ne avevamo parlato tante di quelle volte e tra lo scherzoso e il serio, avevamo detto che avremmo risolto tutto sposandoci. È evidente però che ora Diego non avesse nessuna intenzione di sposarmi, così, il diciotto novembre, presi tutto quello che avevo nella casa di Diego e me ne tornai in Italia.



Epilogo


Un incubo, ogni giorno da quel giorno fu un incubo per me. Il rancore che avevo nei confronti dell’ormai mio ex per non avermi impedito di andare via, per non aver nemmeno avverato una delle mie tante fantasie romantiche sul fatto che amandoci come ci amavamo, non mi avrebbe fatto partire, restarono mere illusioni. Orgoglio di innamorato ferito. Diego si mostrò poi per quello che era, un torinese freddo e arrabbiato che non sopporta di essere preso in giro dallo spaccone del sud. E io ci tornai in quel sud che ormai non aveva né ricordi e né sapori. Mi chiusi nel mio scantinato-laboratorio, dove un tempo disegnavo i miei fumetti, i miei schizzi, sognando la gloria, di diventare un facoltoso fumettista del nord. In ogni modo facoltoso uomo arrivato. Un fottuto figlio di puttana con le palle. Ma le palle non le avevo e anziché ricominciare a disegnare, ricominciai a scrivere, ma non a penna. Complice anche in nuovo notebook che mi regalai vendendo tutto l’oro che avevo, c’è da dire che mia madre lo conservava per me e non ne fu felice, ma io dovevo mangiare, tirare avanti, visto che non lavoravo e che non avevo nessuno che mi mantenesse. In ogni modo iniziai a riportare quei foglietti che avevo conservato, a trascrivere la mia storia con Diego dall’inizio. Rinominai il file: Gli amanti dei Navigli. Era bellissimo, ogni volta che finivo un capoverso piangevo lacrime vere. Ogni volta che terminavo un capitolo, provavo a chiamare Diego. Ma lui non rispose mai. Il libro costatava di otto capitoli. Ma a l’ultima telefonata non risultò più raggiungibile, quella linea era stata disattivata.
Mandai in giro quel libro, non perché davvero pensassi di guadagnarci qualcosa, ma lo trovavo così insopportabilmente bello e realistico che volevo farlo leggere ad altri, raccontare ad altri la parte bella della nostra storia, quella che finiva bene, con noi fuori dall’Italia a vivere d’amore, a pettinarci davanti allo specchio, (anche se con i miei sarebbe stato difficile). Mi illudevo che quelle tante parole messe in fila avessero un senso, almeno negli occhi degli altri. Nemmeno i nomi cambiai, fregandomene di eventuali denunce. Il risultato fu che il libro venne pubblicato nel 2008 da una piccola casa editrice di Bari e in poco tempo ristampato dalla Baldini&Castoldi, di Torino. Il resto lo immaginerete. Divenne un successo, anche perché, immagino, prima di me nessuno in Italia era stato in grado di descrivere una storia omosessuale così, priva di retorica ma piena di coraggio. Uscii dal mio seminterrato, feci presentazioni, persino a Torino. Mi ritrovai invischiato nel successo e nei soldi, e mi godetti quell’alito di felicità apparente che i soldi possono darti. Tutti mi chiedevano di Diego, e io dicevo che si sbagliavano, che era solo una storia di fantasia. Finché nel 2010 ricevetti una strana email di un Perrone hotmail che non conoscevo, ma subito risposi di sì alla proposta di incontrarci a Roma, dove avrebbe soggiornato una settimana per via di un congresso. Ero felice perché certo che si trattasse del mio Diego.
Ma no, non poteva essere lui, non aveva mai risposto alle mie chiamate e all’ultima aveva persino staccato il telefono. Ma partii per Roma in treno, pieno di tante speranze. Siccome Perrone mi aveva chiesto una copia del libro, io ero armato di una copia nuova di stampa e delle migliori intenzioni di farmi perdonare, di dare un senso a tutta quella sofferenza, quel disastro. Di ricominciare da capo.
Lo vidi sotto il tabellone degli arrivi, i capelli simili a Diego, anche il sorriso un po’ sbilenco, strano. La sua strana smorfia.
Ma non era Diego. Non aveva i suoi piercing e nemmeno la sua bellezza.
“Piacere Andrea” si presentò, non mi ci volle molto a capire che si trattava del fratello di Diego, lo svedese. Noi lo chiamavamo così perché viveva in Svezia.
“Piacere Michele” risposi. Il cuore mi batteva all’impazzata, non so se più per la delusione o per la felicità di trovarmi un Perrone di fronte.
“Sediamoci dai” mi propose sicuro di sé di fronte ad un tavolino di un bar all’aperto. In questo era diverso da Diego, sembrava scaltro, avvezzo a trattare con estranei. Diego ed io invece eravamo insopportabilmente timidi in certe situazioni.
“Ho letto il tuo libro e sono onorato che ti sia dato la briga di venire fin qui a portarmelo. Ma ho dimenticato la mia copia a casa e volevo un autografo”
“Per così poco... come sta Diego?”
“Perché non lo sai?” il sorriso gli morì sul viso sostituito da un’espressione dura. “Mi prendi in giro?”
Mi cadde un cucchiaino e mi affrettai a raccoglierlo. Il suo sguardo era glaciale.
“Ma dunque non sapevi niente e hai scritto questo fantastico libro su mio fratello? Ti ringrazio, i miei genitori te ne saranno sempre grati”
“Come sta Diego” ripetei balbettante e tremante.
“Che vuol dire come sta, è morto! Si è buttato da un ponte, e devo dedurre che era talmente depresso  e ubriaco. Ho forse omesso che la causa eri tu” via la maschera e nel cesso i modi gentili. Mi gettò in faccia il suo Martini Dry. “Era questo che volevo leggere nei tuoi occhi, bastardo figlio di puttana. Hai ridotto quel povero ragazzo un alcolizzato e mia madre una larva umana. Sei mesi fa anche mio padre ha tentato di uccidersi con dei sonniferi. Ma non c’è riuscito” oscillò la testa.
“Basta così” alzai in aria il braccio e lo bloccai, incapace di sentire oltre. Scappai nel bagno della stazione. Mi asciugai con dei tovaglioli, ma maglietta e giacca restavano inesorabilmente bagnate. E guardandomi allo specchio per pochi istanti, fissai senza pace il segno sotto l’occhio, quello che mi aveva procurato la scheggia della lampada, la maledetta sera in cui avevo rivelato che razza di merda fossi al mio grande amore. Come se accarezzando lei potessi ritrovare un pezzetto di Diego, ormai un sogno onirico, qualcosa di spazzato via dalla realtà. E in quell’attimo, riflesso nello specchio, rividi il volto di Diego e mi sembrò come se fossimo di nuovo a casa nostra, come mi guardava tutte le mattine prima di uscire, con gli occhi pieni d’amore, rivolgendomi alla fine un sorriso, uno di quei rari sorrisi che sembravano costargli così tanto, talmente da tenere un cassetto dei sorrisi nella sua scrivania ben sigillato, per regalarne soltanto a chi davvero amava.
Perché un sorriso non si dovrebbe mai donare a caso. O per un proprio tornaconto.
 

caparezzamadiego Copyright © 2011 Design by Ipietoon Blogger Template | web hosting